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Immagine del redattoreLuca Signori

Unorthodox


Unorthodox è una miniserie densa, profonda, destrutturata. Ed è spiazzante, soprattutto mentalmente.


Tratto dall’autobiografia di Deborah Feldman “Unorthodox: the scandalous rejection of my hassidics roots” e diretto da Maria Schrader, è uno dei titoli Netflix di punta del 2020.


Unorthodox spiazza perché ci mostra, nel dettaglio, uno dei mondi religiosi più radicali e rigidi mai esistiti (ed esistenti): la comunità ebrea ultra-ortodossa chassidica di Williamsburg, quartiere di New York. Uno di quei mondi così anacronistici che mai avrei pensato potessero esistere. Eppure. È un universo fatto da una valanga di preghiere, regole, schemi e outfit (anche negli atti sessuali) davvero WTF!, fuori dal tempo insomma!


Nella comunità ultra-ortodossa gli uomini hanno un ruolo predominante e totalitario. Ergo le donne non contano nulla? Purtroppo, sì. Non hanno alcun diritto, solo doveri. Tra questi, ne emergono tre, in maniera netta e pesante. Obbedire sempre, fare figli e badare alla casa. Per non parlare poi di tutta quella infinita carrellata di frecciatine, atteggiamenti e modi di fare, sempre pronti ad affiorare quando qualcuno si ribella e che minerebbero la stabilità mentale di chiunque.


Capite bene quindi che, per scrollarsi di dosso questo clima, così traboccante di dogmi e imposizioni inviolabili, la cosa giusta da fare è solo una: fuggire. E il più velocemente possibile anche. Proprio come fa Esty, la giovanissima protagonista di Unorthodox. Esty ha appena 19 anni ed è uno scricciolo di ragazza che, stanca di un matrimonio fin troppo pilotato e di un marito più insipido del pane azzimo, falsifica i documenti e fugge a Berlino in cerca di un po’ di respiro.


In Germania si barcamena come può ma ha la fortuna di incontrare prima un gruppo eterogeneo di giovani violinisti, che la coinvolge in attività ludiche che le sembrano fantascienza, poi la madre, che era stata costretta ad abbandonarla a New York anni prima. La vera salvezza, però, Etsy la trova nella musica che diventa balsamo per lenire le tante ferite accumulate e represse. Una “cura” che le servirà sia per trovare, ritrovare e definire se stessa sia per mettere il punto esclamativo alla relazione con Yanky Shapiro, suo marito, che intanto ha deciso di tallonarla, insieme a Moishe, per convincerla a tornare.


Ah, un’ultima cosa: molti dei dialoghi della miniserie (con opportuni sottotitoli) sono in lingua yiddish. Una scelta che ci fa immergere ancora di più nel mondo della cultura ebraica ultra ortodossa.


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